C’è un argomento del quale nessuno vuol sentire parlare volentieri, e corrisponde a una parola di sole cinque lettere: morte. Ecco, dopo questo esordio non saranno pochi i lettori che rinunceranno ad andare avanti, magari accompagnando la subitanea decisione col noto gesto apotropaico del mignolo e dell’indice. Voglio dire, più precisamente, che a nessuno va di parlare della propria morte. Che mai ci sarà da dire, su questo tema, santo cielo? La morte che ci riguarda sarà quando sarà, verrà quando verrà. Non possiamo farci nulla e perciò a che vale parlarne? Molti di noi ne hanno un tale orrore (e come darci torto?) che non vogliono pensarci nemmeno. Meglio vivere la vita finché si può e meglio che si può, e basta. Inutile parlare della morte, no? Farlo è come andarsela a cercare, “porta male”, pensano in molti. Chi osa farne più di un cenno, viene guardato di traverso, come un appestato, un contagioso, un menagramo, un maledetto rompiscatole. Viviamo ed amiamo, altro che parlare della morte! Ma in fondo questa fuga dal tema è un bel paradosso, quasi che l’argomento potesse non riguardarci. Purtroppo (o per fortuna, non saprei) si dà il caso che noi umani siamo animali speciali e, come ci ricorda il Poeta, diversamente dalle bestie, che vivono e poi muoiono (e fine), noialtri abbiamo in sorte la ventura, anzi, la sventura di essere consapevoli della nostra mortalità, di sapere che moriremo. Così, magari sottotraccia, tutti sappiamo e ci pensiamo (altroché) : la morte arriverà per ciascuno, è ineludibile e certa. Specie dopo una certa età, tutti ci si pensa, spesso e malvolentieri, anche se non vogliamo ammetterlo e ci rifiutiamo di parlarne. E allora? E quindi? Che si fa? C’è forse un modo per eludere la morte? No, non ce ne è uno, non c’è proprio. Eppure… Eppure ci sono modi e pensieri per aggirarne almeno in parte l’orrore e quasi quasi per gabbarla un po’, questa morte. Il primo , va da sé, è l’atteggiamento dei tanti (apparentemente, ma in realtà sono pochi) che confidano di durare, oltre la loro vita terrena, in un aldilà eterno e preferibilmente beato. E beato chi è profondamente convinto di ciò. Ma forse i più tale fiducia (lèggesi fede) non ce l’hanno per niente. Personalmente mi attengo alla nota massima epicurea: finché ci sono io, la mia morte non c’è. E quando ci sarà la mia morte, a me che me ne cale? Non ci sarò più io. (Semmai mi spaventa la sofferenza della vecchiaia, l’invalidità, il venir meno della lucidità della mente; questo sì, ma questo è un altro argomento). Un pensiero che aiuta molto è quello che “dopo” si potrà continuare, in qualche modo e in una strana misura, a vivere nel ricordo dei nostri cari, dei nostri amici, di coloro che ci hanno voluto bene. E’ pur sempre un modo per sopravvivere a noi stessi, se i “nostri sopravvissuti” penseranno di tanto in tanto a noi, come noi stessi facciamo coi nostri cari estinti. Insomma, è un altro piccolo escamotage per gabbare la morte, l’idea di continuare a vivere nel ricordo e financo biologicamente nei geni dei nostri discendenti (posto che ne abbiamo, però…) C’è poi chi un poco si consola (ma non sono certo i più numerosi) pensando che continuerà a vivere nelle opere di qualsivoglia natura che ha compiuto in vita, avendo con ciò stesso lasciato traccia di sé, se non eterna almeno duratura. E’ un’altra maniera per dirsi: quando morirò, non sarò morto veramente del tutto. Ma c’è chi non lascia né figli né nipoti, c’è chi non lascia “eredità d’affetti”, né ha compiuto opere memorabili. Anche per costoro, tuttavia, la morte potrà non essere proprio definitiva, ove si consideri che ognuno lascia comunque sempre traccia di sé, lascia eco e riverbero nel mondo che ha vissuto e attraversato, e nella gente che ha incontrato e conosciuto, quand’anche questa gente nemmeno si ricordi di lui (o di lei). Perché comunque e sempre il nostro modo di essere e di agire ha conseguenze e ricadute e impatti sulla realtà circostante. Così si continua a vivere nello spirito del mondo. E questa può essere considerata la forma estrema di consolazione per la nostra inguaribile mortalità.
Prof. Ivo Zunica
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