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E’ da poco passato il 25 novembre, e c’è stato dovunque un pullulare d’iniziative per ricordare, e far da monito, e sensibilizzare, ed altro ancora, sul tema, ahimè intramontabile, della violenza contro le donne. Iniziative e manifestazioni spesso significative, altre volte di dubbia plausibilità, riempite di canti non sempre acconci e pertinenti, ed anche di una cert’aria persino di festa, che forse non ci stava del tutto. Ma tant’è.
Ed ora? Ora ne riparliamo tra un anno, il prossimo 25 novembre? Meglio di no, meglio forse battere il ferro finché è caldo. E dunque, la violenza sulle donne. Com’è noto, essa si declina in un’ampia gamma di manifestazioni, la più eclatante delle quali è il cosiddetto “femminicidio”, un neologismo piuttosto recente e, secondo alcuni, non troppo opportuno; ma inutile starne a fare una questione di parole e di etichette. Tuttavia la forma forse più pervasiva, tenace e diffusa (e, parrebbe, intramontabile) di tale violenza di genere è la violenza sessuale. E di questa, dunque, mi restringerò qui a parlare.
Personalmente, nonché essere del tutto esente da tale tipo di pratica (e certo: se lo fosse – penserà il lettore – mica lo direbbe), non mi è mai capitato, nella mia lunga carriera di essere umano maschile, non dirò il desiderio, ma nemmeno la più pallida (o squallida, piuttosto) idea di commettere un’azione del genere. Non è che lo dico mica per menarne alcun vanto (e ci mancherebbe: vanto di che? di ciò che dovrebbe essere normale?), ma per dire piuttosto che sono in realtà assai numerosi gli uomini del tutto immuni dalla “pratica” e dalla “teoria” di un comportamento siffatto. Direi che sono la maggioranza degli uomini e azzarderei persino: la stragrande maggioranza. La qual cosa, tanto per cominciare (se guardiamo il bicchiere mezzo pieno) è tutto sommato una buona notizia.
Ma c’è uno “zoccolo duro” che i dati delle varie ricerche segnalano come irriducibile o, al più, a seconda dei periodi e dei luoghi, in lieve regresso. Oltretutto, si sa che si tratta di dati non completamente certi, per vari motivi: non ultimo il fatto che la violenza sessuale sulle donne (e sui minori) è assai spesso consumata, come si suol dire, tra le mura domestiche.
Ora, se m’interrogo sul mio personale modo di comportarmi, e di pensare (e di sentire), a proposito di questa faccenda dello stupro e affini, e se mi rendo conto che a me, di compiere azioni di tale natura, non è mai passato (come si usava dire un tempo) manco per l’anticamera del cervello, mi rispondo che ciò è dipeso certo dall’educazione che ho ricevuto e forse anche dal mio temperamento naturale. L’idea di consumare uno stupro su una donna (e non dirò addirittura su un minore), prima ancora che ripugnanza mi suscita sconcerto: mi pare, dico la verità, incomprensibile.
Ma poiché quello che sempre dovrebbe interessarci è di comprendere, allora ci metto nella domanda che mi accingo a porre una salutare dose di crudeltà, di severità verso me stesso e mi chiedo quanto segue. Se fossi nato e cresciuto in uno di quei non pochi paesi nei quali il disprezzo verso le donne e la loro dignità è considerato, almeno in certi ambienti, quasi un “must” (con ciò che ne consegue nei comportamenti, fino alla legittimazione dello stupro medesimo - ove la donna è cosa, schiava, essere inferiore ecc.), ebbene, se avessi avuto una così sciagurata ventura, quale sarebbe il mio atteggiamento in proposito? La domanda non è affatto retorica, né scontata la risposta, come si vedrà.
Ma facciamola più semplice e nostrana: e se fossi nato e cresciuto, poniamo, in una delle non poche e ben note periferie degradate di diverse metropoli italiane, che maschio sarei? Se avessi avuto una famiglia devastata, se fossi venuto su bazzicando malamente per la via con un gruppo di coetanei semianalfabeti e dediti a pratiche illecite di vario genere, autorizzate dallo stesso contesto sociale, come sarei diventato? Il lettore frettoloso sospetterà ora che io mi stia dirigendo verso una qualche forma di “giustificazionismo”, ma non è così.
Se avessi dovuto, per sopravvivere nel “branco”, dar prova di condividerne la teoria e la pratica “stupratoria”, cosa sarei ora? Un esperto stupratore seriale? La storia, è vero, non si fa coi “se”: nemmeno quella personale. E tuttavia il quesito è plausibile. Ebbene, io oso ipotizzare che anche in quel caso non mi sarei affatto votato alla violenza sessuale. Sarei magari diventato un “reietto” (si fa per dire) ed un emarginato: tale , cioè, per il “branco” e per l’ambiente in cui fossi cresciuto, ma violentatore dei più deboli fisicamente e degli indifesi (e a questo novero appartengono le donne quando vengono violentate), no. E ciò non per ragioni morali o, che so, religiose (che magari non avrei avuto nemmeno a disposizione nel bagaglio della mia formazione) ma prima ancora di ciò per ragioni naturali.
Perché esiste ed alberga nell’animo profondo degli uomini (cioè in questo caso delle persone, ivi comprese le donne) un nocciolo naturale e non eradicabile di rifiuto interiore, d’interdizione automatica, nei confronti della prepotenza, della sopraffazione verso i più deboli, della violenza sugli indifesi. Esiste addirittura in tutti i mammiferi, ad esempio, un comportamento naturale di difesa e cura nei confronti dei cuccioli o dei malati (della propria specie, s’intende). E tale atteggiamento lo ritroviamo perfino nel comportamento di certi animali domestici (cani e gatti) nei confronti dei cuccioli dell’uomo. Dunque, io credo, è anche su questo nocciolo naturale dell’animo umano (lo vogliamo chiamare inclinazione al bene?) che dovrebbe far leva un’educazione mirante a contrastare i comportamenti di violenza e sopraffazione sui più deboli fisicamente e, nello specifico, sulle donne.
Dopo di che mi chiedo ancora: ma che genere di piacere è quello che si prova a sopraffare e malmenare una donna per goderne sessualmente? Io dubito che lo si possa considerare propriamente un piacere sessuale, laddove non sussista, cioè, non dirò reciprocità, ma nemmeno consenso, ed anzi ci sia solo resistenza, rifiuto, dolore, offesa. Ora, per quanto più materiale (se non addirittura belluino, secondo alcune donne) sia considerato il piacere sessuale maschile (come in effetti propriamente non è), è chiaro che chi si appaga di siffatti generi di rapporto, sta in fondo esercitando un “piacere” solipsistico, un equivalente (si fa per dire) di quello che impropriamente viene spesso detto onanismo, ossia il piacere solitario. E’ come, in fondo, se stesse avendo un rapporto da solo. L’onanismo, però, è una pratica lecita, almeno giuridicamente: per alcuni dinosauri non lo è moralmente, per altri sì, e ciascuno, nel suo privato, faccia quell’accidente che gli pare.
Ma l’onanismo con violenza e sopraffazione, oltre ad essere illecito, è cosa cui si ribella la coscienza: la coscienza naturale, come dicevo, prima ancora di quella morale (senza per questo volerla escludere). E allora cosa resta veramente nell’appagamento del violentatore? Resta il piacere piuttosto disumano e innaturale, di sopraffare, di recar danno, di oltraggiare, di avere in propria balìa un altro essere umano. Un ben miserando e miserevole piacere, che dovrebbe indurci a provare pietà e compatimento per chi lo prova, se non fosse che in questo caso, la pietà, la compassione (e la rabbia) non possono che stare tutte dalla parte delle vittime.
Ivo Zunica 30/11/2016
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Dello stesso autore, sul sito di Napolinternos: Violenza sulle donne: un punto di vista maschile?
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