NAPOLI NEGLI ANNI DELLE LEGGI RAZZIALI - intervista a Tullio Foà
There are no translations available.

Tullio FoàAbbiamo avuto recentemente il piacere di conoscere il sig. TULLIO FOA', un giovinotto di 82 anni (classe 1933), i cui occhi azzurri riflettono uno spirito ironico e grintoso e una voglia inesauribile di raccontare.
Il Sig. Foà è uno degli esponenti di quanto rimane della comunità ebraica di Napoli - attualmente composta da circa 160 persone - e uno degli ultimi testimoni diretti di uno dei periodi più turpi della storia dell'umanità e dello Stato italiano: quello delle LEGGI RAZZIALI, della persecuzione e dello sterminio di ebrei, rom, omosessuali, avversari politici, ritardati mentali e portatori di handicap fisici.
PER NON DIMENTICARE,  Napolinternos gli ha chiesto un’intervista/racconto.



Sig Foà, ci restituisca la memoria di quanto accadde alla comunità ebraica di Napoli alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale.

Quale fu l'esperienza, da bambino, di un mondo che si stava sfasciando attorno a Lei?

Mi chiamo Tullio Foà e appartengo alla comunità ebraica di Napoli. Voglio raccontarvi la storia di un bambino di 5 anni.
Era il 1938 e venivano emanate le leggi razziali. A tutti i ragazzi e bambini di religione ebraica fu vietato di andare a scuola, dalle elementari al ginnasio, nonché all’università. Tutti i docenti ebrei furono licenziati in tronco, e così accademici, avvocati, medici… tutti i professionisti persero il proprio lavoro. Dopo un po’ di tempo, il governo ebbe un leggero ripensamento riguardo alle scuole elementari: se si fosse riusciti a formare una classe di 10 ragazzi ebrei, questi sarebbero stati autorizzati a frequentare una scuola pubblica.
Io fui il decimo.
Il direttore della scuola Vanvitelli di Napoli aveva 9 bambini ebrei che avrebbero dovuto frequentare la prima classe elementare e commise un falso: dichiarò che io avevo compiuto i 6 anni, per cui la classe poteva formarsi. Il primo giorno di scuola ricordo di essere stato molto orgoglioso del mio grembiulino nero, del colletto bianco inamidato, del fiocco rosso; mi sentivo sicuro nella mano di mio fratello maggiore e tra i miei amici, che ero abituato a incontrare regolarmente in sinagoga. Era molto bello.
Dopo qualche giorno iniziai a notare qualcosa di strano: noi dieci, e solo noi dieci, entravamo da un cancello secondario, un quarto d’ora prima degli altri, e uscivamo un quarto d’ora dopo gli altri, sempre dallo stesso cancello secondario. Quando si proiettava un film, entravamo nell’aula magna solo dopo tutti gli altri e venivamo sistemati lasciando un paio di file vuote dietro gli altri i compagni di scuola, che commentavano: “Ecco gli ebrei!”, senza forse rendersi conto di cosa significasse.
Potevamo andare al bagno solo dopo che tutti i ragazzi “normali” erano tornati in classe; in palestra, però, non eravamo ammessi, per cui facevamo ginnastica fra i banchi.

Al termine della V elementare eravamo rimasti in quattro. Non si faceva mai l’appello, non ce n’era bisogno.
Andando alle medie, il primo giorno mi sentii chiamare dall’insegnante, non sapevo come reagire. Il compagno vicino mi suggerì: “Devi alzarti e dire: presente!”.
Il giorno di scuola che ricordo con maggior emozione è quello in cui non sono più entrato dall’ingresso secondario, ma da quello principale, a testa alta. Un’emozione così intensa, da sentirmi frastornato: entrando a scuola avevo capito di avere recuperato la mia libertà e ancor più la mia dignità, che nessuno era riuscito a distruggere.

La V classe della scuola Vanvitelli nel 1943

La V classe dell'istituto Vanvitelli nel 1942. Tullio è il 3° bambino in seconda fila.


Quali altri ricordi e riflessioni vuole consegnare alla memoria? Relativamente alla sua famiglia, a Napoli, allo Stato...

In casa la mamma mi raccontava spesso di avere avuto un cugino, di religione ebraica anche lui, che era nato e vissuto ad Alessandria d’Egitto. Allo scoppio della guerra del ’15-’18 aveva sentito il richiamo della patria ed era tornato in Italia a combattere gli austro-ungarici, arruolandosi negli Arditi. Era morto a 20 anni sul Piave e gli era stata conferita la Medaglia d’Oro e una laurea ad honorem in giurisprudenza. Io le domandavo come fosse possibile avere un eroe in famiglia e venire, al contempo, trattati come nemici dell’Italia!
Quando furono emanate le leggi razziali, mio padre – vice-direttore di banca -  fu tra quelli che persero immediatamente il lavoro. Emigrò ad Asmara, in Africa orientale, nell’unico paese dove le leggi razziali non erano in vigore. Io ero il minore di 5 fratelli. Il più grande, avendo completato il liceo, avrebbe voluto iscriversi all’università, ma non era consentito; emigrò negli Stati Uniti, dove mia madre aveva una sorella e due fratelli. Rividi entrambi solo nel 1945. Conoscevo a stento mio padre.
I napoletani erano solidali con noi, ma non potevano esprimere apertamente il dissenso, poiché le pene erano molto severe. Abbiamo ricevuto molti aiuti, come i nostri correligionari nel resto d’Italia: conventi, chiese, gente umile hanno nascosto molti di noi. La nostra famiglia ebbe la fortuna di conoscere un dirigente del commissariato tollerante e un coraggioso amico di famiglia. Il commissario del Vomero aveva mandato a chiamare mia madre. Poiché le leggi antiebraiche si stavano inasprendo, ci suggerì di trovare qualcuno di religione cattolica che si intestasse affitto e utenze. “Una volta che lei ha cambiato casa, non ha più beni intestati a suo nome, praticamente per me la famiglia Foà non esiste più”. Così facemmo. Un amico di famiglia, Marcello Magrì, per il quale la mia gratitudine sarà perpetua, si assunse questa grave responsabilità. Così non perdemmo la casa.
Le persecuzioni dovevano partire da Napoli. Come scrive il Dott. Pietro Gargano in un suo articolo:
“Le deportazioni dovevano partire da Napoli sabato 25 settembre 1943. Tutto era pronto. I vagoni ferroviari piombati e ispezionati con cura. Il Comandante Kohl aveva stilato l’elenco degli ebrei da rastrellare. Era stato perfino scelto, pensiero gentile, il disco che avrebbe accompagnato il viaggio degli ebrei. Il brano era” La lacrimosa” dalla messa di requiem in re maggiore di Mozart.
L’operazione si chiamava “Samstagsschlag”, ossia “il colpo a sorpresa del sabato”. Gli ebrei andavano catturati nel loro giorno santo, quello di riposo, quando erano radunati in preghiera nel tempio. Perché Napoli era stata scelta per avviare il macello? Perché agli occhi sprezzanti dei tedeschi Napoli era remissiva, abituata a prostrarsi davanti ai dominatori di turno: l’ideale per inaugurare l’annientamento della razza infetta.
Fu un errore che nella storia di Napoli si è fatto spesso: quello di sottovalutare la rabbia e l’orgoglio dei napoletani. Così, l’operazione a sorpresa del sabato divenne una sorpresa per i nazisti, disorientati dalla furia popolare e dall’eroismo dei napoletani, con le ”Quattro Giornate”.
Chi furono gli eroi delle Quattro Giornate? Uomini, donne, ragazzi, ragazze, scugnizzi…che si dovrebbero ricordare più spesso. Gennarino Capuozzo, un ragazzo di 13 anni, imbracciò il fucile sul ponte della Sanità contro i tedeschi e fu finito da una raffica di mitragliatrici. Non solo lui. Ci furono delle scugnizze: Giuseppina Mastroianni, 14 anni, Assunta Giordano e Rosa Severino, 15 anni, Eva Vittorio, 16 anni, Speranza Turboni di Brusciano, 18 anni… Ci sono stati eroi anche tra le donne.
Le deportazioni partirono da Roma e furono pesanti. In tutt’Italia furono prelevati 8.625 persone di religione ebraica; solo 1017 sopravvissero. La cosa più grave di Roma fu la deportazione dei bambini: 221 bambini. Nessuno di loro è tornato. Il più piccolo era appena nato; i genitori non avevano fatto in tempo a dargli un nome, per cui ne conosciamo solo il cognome: Di Veroli. E poi abbiamo Giovanni Di Cassa, di 18 giorni, Fatima di Tivoli, 18 giorni. La più grande, Rina Di Consiglio, aveva 10 anni.
Dobbiamo anche ricordare coloro che si sono salvati e, rientrando nelle loro case, hanno avuto grossi problemi. Qualcuno parla dell’eredità di Auschwitz: “Un rimorso mi è rimasto nel cuore. Dopo la selezione non mi sono mai girato a guardare mia madre. E io penso che lei, coi suoi occhi, mi abbia cercato, mi abbia supplicato di voltarmi per guardarla l’ultima volta. Ma non sono riuscito. Non sono riuscito più a girarmi”.
Un’altra cosa che i sopravvissuti ricordano è la “selezione”. Per chi è stato in un lager di sterminio è una parola così tragica, che si fa fatica a nominarla. “Ricorderò sempre lo sguardo disperato di mia madre, che, avendo imboccato la fila di sinistra, a un certo punto si è girata per salutarmi ancora. Aveva 44 anni”.
Agli educatori, in particolare, leggo spesso una lettera che il preside di un liceo americano, polacco, sopravvissuto a un campo di sterminio, aveva l’abitudine di inviare ai suoi insegnanti all’inizio di ogni anno scolastico.
"Caro professore,
sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini uccisi con veleno da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università.
Diffido, quindi, dell’istruzione.
La mia richiesta è la seguente: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti.
La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani".


Qual era la situazione della comunità ebraica prima dell’emanazione delle leggi razziali? La popolazione vi era amica?

Mio nonno è stato rabbino capo dal 1906 al 1940, quando è morto. La comunità è sempre stata molto unita e con i napoletani abbiamo sempre avuto un rapporto meraviglioso, perché il popolo napoletano è buono, tranne  gli esponenti del periodo fascista, che hanno cercato di danneggiarci: fortunatamente erano pochi. C’era integrazione totale con la popolazione, che ci ha aiutato in tutti i modi Nel periodo migliore, fino al 1938, eravamo 600; attualmente 160. Non ci siamo spostati da Napoli, perché eravamo diventati poveri. E questa è stata la nostra fortuna, perché quei correligionari che si sono trasferiti sulle montagne d’Abruzzo o in Toscana, dove le persecuzioni sono state  molto pesanti, non sono più tornati. Abbiamo avuta salva la vita.
Non avevamo consapevolezza di niente: della persecuzione, dei rastrellamenti… All’epoca la televisione non c’era. La radio ci era stata sequestrata, perché non eravamo degni. Per fare una telefonata a Caserta, a volte ci volevano 3-4 ore affinché il centralino desse la linea. Abbiamo saputo tutto a guerra finita. E dirò di più. Mio fratello, che stava e vive tutt’ora in America, quando ricevette il bollettino della Croce Rossa, in tutto le 10 parole consentite, non ebbe il coraggio di aprire la lettera, perché temeva di ricevere notizie terribili. Dopo settimane riuscì ad aprirla e a scoprire che ci eravamo salvati.

Intervista a cura di Francesco e Laura Vigilante Rivieccio

Febbraio 2015

 

Per un approfondimento su Le Quattro Giornate di Napoli, fai clic qui.

Per un approfondimento sull'olocausto nazista delle persone con disabilità, fai clic qui.