Ringraziamo il Signor Giovanni Sepe per l'articolo inviatoci in occasione dell'evento del 10 aprile 2011 dedicato alla donna e intitolato "Nel nome di Ipazia: oltre la festa della donna". Primavera 1971: la sentiamo poco in questo finale d’anno e di corso del Liceo. Pochi giorni, poi la maturità che – davvero! – ritornerà spesso in versione notturna. Siamo seduti sotto gli archi di un chiostro seicentesco di un convento con chiesa annessa ai “Miracoli”. Al lato, il verde da secoli incolto dà fresco. Ascoltiamo gli ultimi dettagli, le siamo d’intorno: lei è stata la docente di Lettere per tre anni e non sarà in commissione. Tra poco, scomparirà a noi per sempre. Non la troveranno a settembre quelli di noi che, ormai maturi, convinti dal ricordo e dalla tenerezza, torneranno qui fingendosi professori in qualche prima classe, salvo poi fuggire a gambe levate… Lei era un piccolo mistero: abitava all’”Infrascata”, non lontano dunque. Padre medico che “non stacca il telefono di notte, ma risponde”… e mica male, che correttezza dati i tempi! Due anni a Medicina (il padre) poi (negata!) si iscrive a Lettere, laurea, insegnamento, prima che a Napoli, a Caserta (“bella città tranquilla”). Poco altro a sapere. Si mormora di un fidanzamento annoso, ”d’argento” per dirla con De André. Eppure, l’allievo più curioso degli altri percepisce l’esistenza di lati in ombra, sconosciuti. Un cognome pieno di consonanti, che non è delle nostre latitudini: è tronco e termina con il suffisso “-berg”, montagna in tedesco. E i lineamenti, vagamente orientali: occhi leggermente a mandorla, viso ovale con zigomi appena alti, labbra leggermente sporgenti che richiamano ai confini tra Europa e Asia. Aspetto gradevole comunque, persona piccola ma proporzionata. Volontà forte, intelligente, preparata, di sinistra... La rivedo circa vent’anni dopo facendo zapping su un piccolo canale di provincia, in un dibattito preelettorale: la riconobbi immediatamente. Meraviglia, e molta, ma guarda, dopo tanti anni! Di nuovo l’oblio, fino a un anno fa, quando il furore di aver libri evolve in una nuova scoperta.Le vie dei libri sono infatti come quelle del Signore ovvero infinite, e chissà che il Paradiso non sia, un’infinita libreria... Tra gli scaffali, tra personale che ti sa e ti lascia fare, vaghi con occhi e mente, guardi i volumi, li riconosci per case editrici da un dettaglio quale la dimensione, la copertina piuttosto che la veste grafica, dai caratteri di stampa o dagli argomenti. Ami toccare e sfogliare e perfino annusare quelli che non reputi oggetti, ma veri e propri viventi, che ti sopravvivranno, un giorno. Il fiuto, l’intuizione ormai allenati suggeriscono di guardare in una direzione, poi in un’altra, poi in basso: ed ecco una piccola collana in brossura del libraio che è anche editore. Sono opere di autori a volte locali, a volte velleitari o narratori e curatori del “localismo” patrio. Attratto da una copertina, ecco l’illuminazione: un’antica fotografia, come un cammeo, due donne d’altri tempi, inizio 900. E quella seduta, che regge un neonato, ha i lineamenti di un viso già noto e semplicemente – i ”fantasmi di Ibsen”- si ripropongono a distanza di cento e anche di quaranta anni. Lei ha scritto dunque una piccola storia della sua famiglia e me la racconta, lei, la pronipote eletta a questo compito tra le tante di una stirpe originaria della Romania che per vari motivi, non ultimi quelli religiosi, ha vagato in Europa disperdendosi in vicissitudini complesse e in luoghi diversi. Riemergono antichi nomi, violenze e famiglie-nido che accolgono e proteggono e a volte celano. E i nomi più recenti di quelli che, ultima propaggine, ritornano nella terra dei Padri, nella nazione eletta del Signore. Ora finalmente, dopo quarant’anni, sapevo... Giovanni Sepe
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