Visitando Nisida: riflessioni sul carcere minorile |
There are no translations available. Il carcere può essere controproducente sotto un duplice aspetto: in primo luogo perché il deviante è spesso un soggetto in difficoltà e alla ricerca di un'identità e di un ruolo, per cui la sua segregazione con altri individui egualmente etichettati può comportare una spinta addizionale al delitto; in secondo luogo perché l’isolamento del condannato dalla società non rimuove le cause che sono all'origine del comportamento deviante. Per questo oggi si tende alla progressiva svalorizzazione della risposta meramente carceraria al reato e ad una maggiore attenzione alla personalità del colpevole, al fine di realizzare concretamente un programma di recupero che tenga presenti le sue potenzialità positive, le sue risorse personali e ambientali, nonché le possibilità di sostegno nel superamento di quelle condizioni negative che hanno facilitato il suo ingresso nella devianza. Questo discorso è ancor più vero se si fa riferimento al minore, il quale, per definizione, è un soggetto in evoluzione, alla ricerca di una propria identità. In quest’ottica per i minori la funzione rieducativa della pena ha la priorità su quella punitiva: all’interno dell’Istituto Penale Minorile (IPM) la regola costituisce la condizione basilare per la realizzazione di un contesto di civile convivenza che possa promuovere i processi di cambiamento del giovane. La pena deve attivare processi di responsabilizzazione, favorendo il mutamento degli stili di vita personali e delle relazioni socio-familiari. Il trattamento, articolato nelle sue dimensioni fondamentali di istruzione, lavoro, religione e attività culturali, ricreative e sportive, deve rispondere al principio di individualizzazione, ossia deve modularsi sui bisogni di personalità di ciascuno, con la possibilità di integrazioni e modifiche in itinere. Esso punta alla rapida e definitiva fuoriuscita del minore dal circuito penale attraverso un processo di reinserimento nel contesto sociale e di rimozione degli ostacoli che ne impediscono la piena realizzazione. Ciò comporta la necessità, in fase di dimissioni, di elaborare un vero e proprio “progetto di reinserimento” del detenuto nel tessuto socio-economico e, laddove possibile, familiare, che lo sostenga nella ricerca di opportunità alternative ad uno stile di vita deviante. A tal fine l’IPM deve mantenere, attraverso un lavoro di rete interistituzionale, un sistema di relazioni con gli Enti Locali, le ASL, le associazioni, gli organismi pubblici e privati. Le collaborazioni con le comunità esterne sono finalizzate da un lato al reperimento di risorse territoriali che favoriscano il lavoro di operatori all’interno dell’IPM, dall’altro alla partecipazione dei ragazzi detenuti ad iniziative all’esterno dell’Istituto. Dott.ssa Silvia Vigilante |