TUTTI AL MARE, TUTTI AL MARE… - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
La Calabria è una specie d’Italia in miniatura, una penisola stretta e lunga, che si sviluppa da nord da sud, bagnata da due mari, il Tirreno e lo Ionio, tra i quali si sviluppa, senza quasi soluzione di continuità, la dorsale appenninica, da nord a sud. In men che non si dica, in Calabria si sale verso l’entroterra, si lascia la costa alle spalle, et voilà, ci s’inerpica su in montagna (e in altrettanto poco tempo si raggiunge il mare opposto).
Che cosa diventa la Calabria d’estate? Diventa meta di un intenso turismo per lo più balneare. I villeggianti si affollano sulla costa, si riversano sulle spiagge, si concentrano nei lidi (le stazioni balneari) fitti di ombrelloni “vista mare”, se ne stanno beati (o intorpiditi) seduti sulle sdraio e, come al cinema, stanno a guardare l’azzurro delle onde. Di tanto in tanto discendono alla battigia, si calano in ammollo, in prossimità della riva, nelle acque talassoterapeutiche, tutti assieme, vicini vicini, senza che quasi nessuno osi spingersi un po’ più in là, nel pelago periglioso, dove sarebbe garantito un benefico “distanziamento”.
In generale le mete predilette sono le cittadine e i borghi costieri, dove amano affollarsi le schiere numerose dei vacanzieri, e dove non di rado la popolazione arriva d’estate a decuplicare. Tra di loro sono in realtà molti quelli che, abbandonato (virtualmente) il caos delle città di provenienza, ma spinti da un impulso quasi tossico, amano ritrovarsi poi in ambienti urbani che riproducono, a volte in peggio, ciò da cui sono fuggiti, ritrovando lo stesso caos del traffico automobilistico cittadino, la stessa ressa nelle vie affollate fino all’inverosimile delle località balneari, dove la sera, tra un gelato e una pizza, si fa il cosiddetto “struscio”: si procede lento pede, gomito a gomito, immersi nella medesima calca delle affollate vie metropolitane dello shopping. E poi la chiamano fuga dalla città. La pace, il silenzio, la poca promiscuità e il distanziamento vero vengono viceversa vissuti da molti con l’apprensione di un horror vacui.
Eppure la Calabria è stretta e lunga, ha scarso sviluppo in longitudine: lasciandosi la costa alle spalle, nello spazio di pochi chilometri si ascende a verdeggianti montagne di faggeti e castagni, a solitarie selve, a borghi incantati di storia e panorami, nella pace e nel silenzio. Macché. Tutta roba che va pressoché deserta dal turista estivo. Sì, è una sindrome davvero sorprendente l’attrazione per la cagnara e l’affollamento. Che bello, che bello, dove c’è il clamore della folla! Una sindrome per me quasi inspiegabile, ma devo essere un caso clinico che aborre la ressa della massa.
E va da sé che quello che qui è stato detto per la Calabria, vale anche per altre regioni italiane. Per esempio si pensi alla Liguria: quanti sono coloro che trascorrono le ferie nell’incantevole entroterra ligure anziché nelle striminzite spiagge dove non c’è nemmeno un posto al sole?
Di più: va da sé che quel fin qui detto vale, mutatis mutandis, per tantissimi altri topos della vacanzitudine nostrana. Insomma, tutti al mare, tutti al mare, a mostrar le chiappe chiare…
Prof. Ivo Zunica
QUANDO LA FORMA È SOSTANZA - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
La forma spesso è sostanza. Lo è per esempio nel settore della ristorazione. L’altra mattina un risveglio antelucano mi ha indotto ad uscire di casa, poco più in là dell’alba, in cerca di un bar. Ne ho trovato aperto solo uno. Mentre attendevo al bancone il caffè che avevo ordinato, la barista si è apprestata a porgere, attraverso il bancone medesimo, un vassoio per una prima colazione da portare a un tavolo. A questo punto il proprietario (intuibilmente) della rivendita mi ha urlato nelle orecchie uno sgarbato “permesso!”, accompagnando le parole con un gesto, sventagliandomi sotto il muso la mano, come a dire “spostati, fatti più in là”. (Noto per inciso che a quell’ora la fretta era peraltro ingiustificata data la scarsa affluenza di clienti). Non ho potuto trattenermi dal rimbrottarlo severamente per la scortesia: il barista si è taciuto, forse per la mortificazione o più probabilmente per la sua completa indifferenza alla mia reprimenda. Ma il punto non è questo. Il punto è che io in quel bar non metterò più piede.
Episodio di segno opposto. Qualche mese fa un altro barista, dopo essersi amabilmente intrattenuto con me (ma su mia sollecitazione, senza alcuna invadenza) sul più e sul meno e avermi servito la colazione, all’atto del pagamento, mancandomi una trentina di centesimi per saldare il conto, il gentile esercente mi ha risposto (udite udite) di non preoccuparmi, che glieli avrei dati la prossima volta e poi, figurarsi, si trattava di pochi centesimi. Quel barista è furbo, o intelligente o semplicemente dotato di buon senso: si è guadagnato un nuovo cliente, tant’è che da quel giorno io torno spesso (e volentieri) a servirmi da lui.
Morale della favola? La forma paga, la forma spesso è sostanza. In Italia, negli anni passati, molti nullafacenti incapaci e inoccupati (ma forse con qualche quattrino familiare alle spalle, o con qualche debito) si sono improvvisati negozianti e, spesso, ristoratori. Ma per aprire un pubblico esercizio serve una preparazione. Dirò di più, anzi, di meno: spesso non è nemmeno necessaria una scuola ad hoc, basta il semplice buon senso.
Così nella ristorazione non è, come si crede, veramente indispensabile una qualità superlativa della cucina. Basta di meno, basta anche solo un accettabile livello di decenza culinaria. Quello che invece conta (e direi è decisivo) è la forma. La forma più importante è la qualità del servizio. La quale ultima si misura non solo con la rapidità del servizio medesimo oppure col fatto che le portate dei commensali arrivino al tavolo in contemporanea, o con attese non estenuanti tra una portata e l’altra. Che pure sono cose importanti, beninteso. Ma la qualità del servizio si gioca soprattutto nella relazione, nell’atteggiamento che il pubblico esercente ha verso i suoi avventori: gentilezza (ma senza affettazione o invadenza), disponibilità ad ascoltare i desiderata del cliente (e ci vuole pazienza, perché a volte le richieste o le proteste degli avventori sono a dir poco peregrine).
Sta di fatto che in un posto nel quale io sono stato trattato bene tornerò volentieri (persino se la qualità della cucina non è eccelsa, è modesta, comune, corrente). Ma in un posto in cui sono stato maltrattato o trascurato non torno più. E’ quello che accade sempre, in moltissime circostanze della vita e non solo nel commercio. Ed ora mi si compatisca se con un arbitrario confronto pindarico passo dalla prosaica attività del commercio a quella elevata della poesia. Un componimento poetico non ha assolutamente valore per quelle quattro parole in croce con cui posso parafrasarlo. Non sono importanti soltanto (e talvolta neanche tanto) i suoi cosiddetti contenuti. Una poesia è eccelsa per come dice le cose, per la sua forma, appunto, che è apportatrice di significati ulteriori e sorprendenti e incantevoli.
Dalla ristorazione alla poesia (e in mezzo mettete tutto quello che volete) la forma è sostanza, e spesso è più sostanziale del mero “contenuto” che ti viene offerto.
Prof. Ivo Zunica
NOSTRA SORELLA MORTE - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
C’è un argomento del quale nessuno vuol sentire parlare volentieri, e corrisponde a una parola di sole cinque lettere: morte. Ecco, dopo questo esordio non saranno pochi i lettori che rinunceranno ad andare avanti, magari accompagnando la subitanea decisione col noto gesto apotropaico del mignolo e dell’indice.
Voglio dire, più precisamente, che a nessuno va di parlare della propria morte. Che mai ci sarà da dire, su questo tema, santo cielo? La morte che ci riguarda sarà quando sarà, verrà quando verrà. Non possiamo farci nulla e perciò a che vale parlarne? Molti di noi ne hanno un tale orrore (e come darci torto?) che non vogliono pensarci nemmeno. Meglio vivere la vita finché si può e meglio che si può, e basta. Inutile parlare della morte, no? Farlo è come andarsela a cercare, “porta male”, pensano in molti. Chi osa farne più di un cenno, viene guardato di traverso, come un appestato, un contagioso, un menagramo, un maledetto rompiscatole. Viviamo ed amiamo, altro che parlare della morte!
Ma in fondo questa fuga dal tema è un bel paradosso, quasi che l’argomento potesse non riguardarci. Purtroppo (o per fortuna, non saprei) si dà il caso che noi umani siamo animali speciali e, come ci ricorda il Poeta, diversamente dalle bestie, che vivono e poi muoiono (e fine), noialtri abbiamo in sorte la ventura, anzi, la sventura di essere consapevoli della nostra mortalità, di sapere che moriremo. Così, magari sottotraccia, tutti sappiamo e ci pensiamo (altroché) : la morte arriverà per ciascuno, è ineludibile e certa. Specie dopo una certa età, tutti ci si pensa, spesso e malvolentieri, anche se non vogliamo ammetterlo e ci rifiutiamo di parlarne.
E allora? E quindi? Che si fa? C’è forse un modo per eludere la morte? No, non ce ne è uno, non c’è proprio. Eppure… Eppure ci sono modi e pensieri per aggirarne almeno in parte l’orrore e quasi quasi per gabbarla un po’, questa morte. Il primo , va da sé, è l’atteggiamento dei tanti (apparentemente, ma in realtà sono pochi) che confidano di durare, oltre la loro vita terrena, in un aldilà eterno e preferibilmente beato. E beato chi è profondamente convinto di ciò.
Ma forse i più tale fiducia (lèggesi fede) non ce l’hanno per niente. Personalmente mi attengo alla nota massima epicurea: finché ci sono io, la mia morte non c’è. E quando ci sarà la mia morte, a me che me ne cale? Non ci sarò più io. (Semmai mi spaventa la sofferenza della vecchiaia, l’invalidità, il venir meno della lucidità della mente; questo sì, ma questo è un altro argomento).
Un pensiero che aiuta molto è quello che “dopo” si potrà continuare, in qualche modo e in una strana misura, a vivere nel ricordo dei nostri cari, dei nostri amici, di coloro che ci hanno voluto bene. E’ pur sempre un modo per sopravvivere a noi stessi, se i “nostri sopravvissuti” penseranno di tanto in tanto a noi, come noi stessi facciamo coi nostri cari estinti. Insomma, è un altro piccolo escamotage per gabbare la morte, l’idea di continuare a vivere nel ricordo e financo biologicamente nei geni dei nostri discendenti (posto che ne abbiamo, però…)
C’è poi chi un poco si consola (ma non sono certo i più numerosi) pensando che continuerà a vivere nelle opere di qualsivoglia natura che ha compiuto in vita, avendo con ciò stesso lasciato traccia di sé, se non eterna almeno duratura. E’ un’altra maniera per dirsi: quando morirò, non sarò morto veramente del tutto.
Ma c’è chi non lascia né figli né nipoti, c’è chi non lascia “eredità d’affetti”, né ha compiuto opere memorabili. Anche per costoro, tuttavia, la morte potrà non essere proprio definitiva, ove si consideri che ognuno lascia comunque sempre traccia di sé, lascia eco e riverbero nel mondo che ha vissuto e attraversato, e nella gente che ha incontrato e conosciuto, quand’anche questa gente nemmeno si ricordi di lui (o di lei). Perché comunque e sempre il nostro modo di essere e di agire ha conseguenze e ricadute e impatti sulla realtà circostante. Così si continua a vivere nello spirito del mondo. E questa può essere considerata la forma estrema di consolazione per la nostra inguaribile mortalità.
Prof. Ivo Zunica
LE NOZZE ASSIRO-BABILONESI - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
“Matrimoni per amore / matrimoni per forza / ne ho visti d’ogni tipo / di gente d’ogni sorta”. Così cantava il Poeta nella sua bellissima “Marcia nuziale”. Ma quel poveretto che era la voce narrante del testo non aveva presumibilmente assistito ad alcun matrimonio di ultima generazione. A me invece sì, è capitata la ventura, anzi, la sventura, di partecipare ad un paio di quelli che io chiamo matrimoni faraonici o assiro-babilonesi.
Lo schema raccapricciante è sempre lo stesso, ma prima vorrei premettere due cose: di nozze del genere di quelle che mi accingo a descrivere ne ho sperimentate tanto al Sud quanto al Nord dell’Italia. Il che significa che il raccapriccio è indifferente alla latitudine e ai cosiddetti costumi (scostumati).
Il secondo rilievo è questo: so per certo di genitori dalle modeste possibilità economiche che si sono addirittura indebitati, hanno acceso un mutuo (sic) per fronteggiare le spese delle nozze e garantire agli amati figli un matrimonio degno di prìncipi (ma io sospetto che i principi abbiano più buon gusto), indifferenti peraltro alla eventualità che molti matrimoni, oggidì, non arrivano nemmeno alla crisi del settimo anno.
Dunque, come si articola il matrimonio faraonico? Si apre ovviamente con una estenuante cerimonia in chiesa (la cui lunghezza dubito sia proporzionale alla congrua offerta per l’officiante di turno). Dopo di che si va. Si va dove? E beh, si parte per raggiungere la “location” del pranzo, distante anche decine di chilometri dal luogo della celebrazione religiosa.
La location, di solito, è una struttura tanto vasta e “importante” (ma di architettura e arredi raccapriccianti) da poter accogliere alcune centinaia (sic) di ospiti, in stragrande maggioranza tra loro del tutto sconosciuti (e sospetto in gran parte ignoti anche alle famiglie dei novelli sposi). A questo punto gli ospiti attendono nel patio, nei giardini e nei cortili: attendono che gli sposi abbiano esaurito il rito del cosiddetto servizio fotografico, che normalmente si avvale anche di riprese dal basso, di lato, dall’alto (con l’ausilio di opportuni droni!). Finita questa procedura, gli ospiti ormai esausti per la lunga attesa, si vedono ammessi alla “area aperitivo”, la quale consiste in una molteplicità di chioschi dove si somministra, a buffet, ogni ben di dio alimentare, il che si configura (per gli ignari gli ospiti…) come un vero pasto luculliano.
Terminata questa fase, ecco che (udite udite) arriva l’annuncio che si passa alla sala imbandita, per il vero e proprio pranzo. Il pranzo? Il pranzo, costituito da svariate portate di primi e secondi, viene consumato al tavolo con altrettanti sconosciuti, con i quali, peraltro, non si potrebbe scambiare, neanche volendo, una sola parola a motivo dell’assordante clangore delle musiche e delle performance canore di sottofondo (si fa per dire) e con attese bibliche tra una portata e l’altra: al secondo primo sei già sulla digestione del primo primo. Frattanto tra i tavoli s’improvvisano da parte di qualche sciagurato, i cosiddetti trenini o altre amene manifestazioni di infantile imbecillità (perché, si sa, ad un matrimonio bisogna che si stia allegri a tutti i costi!).
Dunque, siamo partiti con una cerimonia religiosa a metà mattina e siamo arrivati al termine del pranzo verso le cinque del pomeriggio. Gli invitati sono palesemente esausti, allo stremo delle forze e probabilmente esasperati. Beh, credete forse che la sceneggiata sia finita qui? Neanche per sogno. Alla chiusura del pranzo segue il trasferimento all’aperto, per la conclusiva fase “dessert”. Qui ci s’imbatte ovunque in leccornìe dolciarie di ogni ordine e grado: pasticcini, torte, caramelle, gelati, fontane di cioccolata ed ogni altro ritrovato pasticciero che la fantasia malata degli organizzatori è riuscita a concepire.
La cosa più rilevante di questa fase terminale (pardon) finale della cerimonia sta nella circostanza che, sebbene gli invitati siano strasazi e incerti nel passo, di fronte al ben di dio offerto ad ogni angolo della location, scatta la “sindrome del buffet”, della corsa a tuffo e calca e spinta per riempirsi i piatti di ogni ben di dio. Ma di lì a poco, ahimé, ti colpisce che l’area dessert pulluli di piatti ancora semicolmi, abbandonati qua e là, in ogni angolo. Siamo insomma alla sagra dello spreco, dello sperpero inconsulto di cibo (e di energia, di allegria forzata e via dicendo).
Ora, qualcuno potrà obiettare: ma perché no? Se una famiglia benestante può permettersi lo sperpero di una siffatta convention assiro-babilonese ed esprimere per tale via la propria gioia e il proprio affetto per i suoi pargoli convolati a liete (si suppone) nozze, ebbene, perché no? Perché non dovrebbe farlo? Per carità, lo faccia, chi glielo impedisce? Ma egualmente nessuno impedisce a me di esternare tutto il mio disprezzo per l’eccesso, lo sperpero, il cattivo gusto e – starei per dire – l’immoralità di eventi siffatti. C’è qualcosa di nauseabondo e deprimente in questo genere di eventi assiro-babilonesi. O no?
Prof. Ivo Zunica
IN TARDA ETÀ - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
“Perché a vent’anni è tutto ancora intero, / perché a vent’anni è tutto chi lo sa. / A vent’anni si è stupidi davvero…” Così canta il Poeta nella sua “Eskimo”. E a vent’anni non ci si pensa mai: la vecchiaia è un luogo del futuro remoto, forse immaginario. A vent’anni ci si sente (anche se non lo si pensa) eterni ed immortali.
E poi invece, in men che non si dica, arriva la terza stagione del proprio tempo, e la vita, voilà, è in gran parte passata. Ma capita sovente che non ci si abitui per tempo a pensare per gradi alla vecchiaia. Si continua a sentirsi come giovani anche a 30 anni, a 40, a 50 ecc. Poi succede, assai più di quel che accadeva un tempo, che gli ultrasessantacinquenni (vabbè, diciamo pure gli anziani, per brevità) si ritrovano vecchi d’emblée. E si ritrovano a quell’età come smarriti. Con la pensione, poi, capita perfino che perdano il senso della propria identità, maturata ed ancorata ad una vita di lavoro. Ma chi sono ora io? Qual è il mio ruolo nel mondo? Così ci si sente inutili alla vita e a se stessi. Invece…
Pensiamoci bene, perché noialtri attempati siamo ormai una ben nutrita schiera, nei paesi cosiddetti sviluppati. Certo, la pubblicità non si dimentica di noi e ci corteggia pure, ma solo come potenziali acquirenti di dentiere, apparecchi acustici, pannoloni e protesi di vario genere. Il sistema ci lascia però solo un ruolo e un’identità da consumatori.
Un tempo, invece, le cose non andavano così. Era quel tempo in cui i cambiamenti tra una generazione e l’altra erano così rari e lenti, che davvero gli anziani venivano riconosciuti come una risorsa, un serbatoio di conoscenze e competenze. Ma ora non è più così: i cosiddetti progressi della tecnologia ci rendono dei dinosauri. I nostri figli e nipoti (i nativi digitali) ne sanno (per fare solo un esempio, ma rilevante) assai più di noialtri “veci” in materia di computer e cellulari. Dunque è vero? Gli anziani non sono più saggi? Non servono più a nulla?
C’è stata una recente stagione (che ahimé perdura) di “giovanilismo” e rottamazione. L’industria insegue ed alimenta il parossistico bisogno del cambiamento continuo e della cosiddetta “innovazione” (beh, bisogna pur vendere, e per vendere bisogna che tutto diventi vecchio e superato più in fretta che si può). E così la maggioranza silenziosa di noi vecchietti, oltre allo scorno e al danno degli acciacchi e dei malanni, che sono un portato dell’età (a mano a mano che la “macchina” si logora e si guasta richiede sempre più spesso revisioni e riparazioni), ci si ritrova anche nel cerchio della irrilevanza, della marginalità, dell’esclusione.
Ma consideriamo intanto due principi lapalissiani. Non è che tutto ciò che è vecchio è per ciò stesso inutile, superato, inefficacie. Chi l’ha detto? D’altro canto, molto di ciò che è nuovo, è spesso (scusate il francesismo) un emerito cumulo di stronzate.
E allora? Possono ancora servire gli anziani, essere “utili” (se vogliamo metterla solo su un piano meramente utilitaristico)? Io penso di sì. Non tanto per le cose che sanno fare, di gran lunga surclassate dalla loro ignoranza di un mondo tutto telematico e on-line, in cui, se non sai navigare a puntino, sei un bel po’ fuori dai giochi della vita. E tuttavia, tutti gli anni che hai vissuto ti lasciano pur sempre dentro un patrimonio di qualità immateriali, come la pazienza, le capacità empatiche, l’equilibrio, il senso della prudenza e quello della misura, il saper vedere meglio i pro e i contro delle situazioni, la prospettiva più profonda del buono (e del cattivo) che c’è nelle cose e nella gente, e via di questo passo. Vogliamo chiamare tutto questo con una parola presuntuosa che risponde al nome di saggezza?...
Bisognerebbe che qualcuno lo facesse capire a chi è più giovane che questo patrimonio di pensiero moderato e “largo” può essere prezioso. Ma in questi nostri mala tempora, ahinoi, il nuovo continua ad essere sempre bello per partito preso, e il vecchio pare sempre da buttare.
Prof. Ivo Zunica