SUL “TU”, SUL “LEI” E SULL’IMPOVERIMENTO DELLA LINGUAThere are no translations available.
di Ivo Zunica
La questione è complessa. E già qui qualche lettore storcerà il naso e cambierà pagina. Perché la complessità spesso disturba. Un po’ tutti, infatti, preferiamo i discorsi chiari, a prova di deficiente, addirittura, e che vadano subito al punto. E ne abbiamo ben donde, vivaddio. Però a volte la complessità non si può eludere. E veniamo allo specifico.
Agli estranei si dà del “lei” o si dà del “tu”? Fino a poco tempo fa, quando, entrando in un negozio, mi sentivo dare del “tu”, a me, abituato a dare rigorosamente del “lei” a uomini e donne che mi fossero sconosciuti, a giovincelli e signori attempati, ebbene, lo confesso, mi si torcevano un po’ le budella.
Quello che mi veniva puntualmente di pensare era: ma come si permette questo sbarbatello (o anche, si badi, questa signora non più nel fiore degli anni) di rivolgersi a me, senza conoscermi punto, con cotanta familiarità? Abbiamo forse mai “mangiato nello stesso piatto” o avuto altre consimili intimità?
Tuttavia non eccepivo alcunché, non protestavo, perché di solito m’imbarazza fare reprimende o mettere gli altri in imbarazzo. Io però continuavo con il mio “lei”, lasciandomi pazientemente dare del tu dall’altrettanto imperterrito interlocutore. Negli ultimi tempi, però, ho capitolato: mi sono assuefatto a sentirmi dare del tu da chicchessia ed io stesso, lo confesso, comincio ad inclinare verso il “tu”, specie se il commesso di turno che ho di fronte è appena appena un po’ giovane. E sia, mi arrendo: diamoci pure tutti del tu e buonanotte ai suonatori.
Fa niente che questo andazzo è un’americanata malintesa, perché nella cultura anglosassone lo “you” passepartout è poi sempre associato a formule di cortesia che fanno la differenza tra il tu informale e il pronome con valenza formale. D’altro canto, con buona pace dei benpensanti come me, delle anime belle e degli arcigni linguisti, il cambiamento è in atto, il “lei” langue sempre più e presto (mi permetto di prognosticare) finirà del tutto nel dimenticatoio, completamente spodestato da un universale ed ecumenico “tu”.
Con il quale aboliremo ogni distanza di classe, di sesso e di età, e scenderemo completamente sul terreno del fraterno e democratico “tu”. E allora?, dirà qualcuno: che male c’è? Vogliamo farne una sterile questione di etichetta? Non è forse bello questo totale abbattimento di distanze tra gli uomini? Questo porsi tutti sullo stesso piano egualitario del “tu”?
Bello o non bello sono convinto che questo pronome senza formalità alla fine la spunterà del tutto. Perché le cose cambiano, cambia il costume e con esso la lingua. Ed è sempre l’uso, con buona pace dei severi linguisti e dei moralisti, che alla lunga la vince. Del resto, alcuni lettori forse sapranno o addirittura ricorderanno, che solo un paio di generazioni fa il “lei”, anzi, il “voi” si dava financo ai genitori da parte dei figli! L’abolizione di questa usanza fu un segno positivo dei tempi e fu certo cosa buona e giusta.
Perché qui, vorrei precisarlo, non se ne sta facendo una questione di buona creanza e di buone maniere. Se ne fa semmai una questione d’impoverimento della lingua, e di perdita dei distinguo, delle differenze. I processi di semplificazione linguistica, infatti, a volte sono il segno di un progresso, ma altre volte sono il segno di un depauperamento della lingua (e del congiunto pensiero).
E a questo punto mi allargo (sia pur brevemente) ad un tema più generale. Quando una lingua s’impoverisce, quando si perde per strada il congiuntivo e si parla solo all’indicativo, quando si smarriscono certi tempi verbali e quando (ahinoi) si riduce il bagaglio lessicale delle persone (e segnatamente delle giovani generazioni), come di fatto sta accadendo e come diversi studi hanno da tempo con allarme segnalato, non è che si perdono solo le parole, si perdono anche i pensieri: si perde la capacità di distinguere, si perde la capacità di pensare le sfumature. Si perdono i concetti e le idee.
Facciamo un esempio estremo. Un semianalfabeta come me nella lingua inglese, quali pensieri può esprimere, anzi, pensare in quella lingua? In quella lingua io posso pensare poco, con approssimazione, rozzamente, perché non ho le parole e non conosco le sfumature lessicali e sintattiche dell’anglosassone.
Così, se questo ti accade addirittura nella tua lingua materna, se ti mancano le parole, non puoi pensare (prima ancora che comunicare) pensieri articolati e discreti. Le parole non solo “esprimono” i pensieri: esse sono la carne e il sangue del pensare stesso.
Dunque, la complessità della lingua non è un intralcio, è una risorsa. Serve a pensare meglio. Perdere le parole e le sfumature e le differenze significa perdere pezzi di pensiero. Ed ecco di nuovo la complessità. Il sapere, anche quello linguistico, migliora le persone. A condizione che la strada che viene percorsa non sia quella di scendere in basso e parlare all’incirca, parlare grossomodo, in modo che (apparentemente) capiscano tutti. No, la strada giusta (e questa sì democratica, altro che il “tu” passepartout) è viceversa quella di portare tutti in alto, verso la complessità della conoscenza, del sapere e, vivaddio, della lingua.
SUL POLITICALLY CORRECT E SULL'IPOCRISIA There are no translations available.
di Ivo Zunica
Stavolta l’ho fatta grossa (pare). Ho fatto uno scivolone (sembrerebbe) sul pendio oltremodo scivoloso del più bieco maschilismo. Il che mi è costato una reprimenda velata (ma non troppo) da parte di alcune signore, compresa mia moglie, che invece non si è risparmiata epiteti come “ottuso maschilista” o semplicemente “emerito cretino”.
Insomma, che cosa ho combinato? Vediamo anzitutto il fatto, anzi, il fattaccio di cui sono imputato. Dunque, bazzicando qua e là, come càpita, su uno dei più noti “social”, mi sono imbattuto in un cosiddetto “post” che mi è parso divertente e così, di slancio, l’ho “condiviso”, come si dice in gergo, cioè l’ho pubblicato a mia volta.
Il post ritrae un’assai formosa e giovane donna fotografata di spalle, a figura intera, e rigorosamente vestita da capo a piedi. Anzi, no: apparentemente vestita. Sì, perché l’avvenente e curvilinea ragazza indossa un pantalone-calzamaglia talmente aderente e sottile da evidenziarne addirittura separatamente le due metà del fondoschiena, indubitabilmente oltremodo enfatico, abbondante ed armonioso.
Al di sopra dell’immagine campeggia una scritta che recita: “Oggi parleremo di questa…” (e il riguardante immagina che ci si riferisca all’estatica visione). Ma poi, facendo scorrere l’immagine verso il basso si capisce che la scritta è completata da un’altra frase sorniona che dice: “…splendida ringhiera in ferro battuto tutta lavorata a mano”. E infatti davanti alle ginocchia della ragazza si estende orizzontalmente una ringhiera di quelle che recingono talvolta le aiuole. Come a dire: ma cosa stavate guardando, eh, malandrini?
Dunque, come si vede, si tratta di uno scherzo, con virtuale strizzatina d’occhi, lo ammetto, al pubblico soprattutto maschile, che rimane inevitabilmente colpito dalla bellezza di quella immagine femminile, altro che ringhiera. Aver condiviso tale immagine mi è stato contestato a un dipresso come una sprezzante offesa al genere femminile. Ora, mi si consentirà almeno il diritto di replica, anzi, il diritto costituzionalmente garantito all’autodifesa.
Potrei cominciare col dire che quella foto non l’ho mica scattata io, ma, come altri che l’hanno “postata”, io mi sono limitato a “copiarla”. Tuttavia questo non mi emenda, me ne rendo conto, dall’accusa di correità. Allora osserverò che in ogni caso quella foto non è stata affatto colpevolmente carpita in un luogo riservato e segreto, bensì in una pubblica e verosimilmente affollata piazza o via, dove l’avvenente fanciulla fa mostra, urbi et orbi, delle proprie pregevolissime rotondità (virtualmente nude, come detto). La qual cosa, per ciò che mi riguarda, era liberissima di fare. Ma se una donna mette in mostra e in piazza una siffattamente formosa carrozzeria (così si diceva, un tempo, maschilisticamente) in mezzo alla folla, mica si può poi pretendere che gli altri non la vedano, anzi, che non la guardino e magari non si lascino scappare magari uno scatto fotografico. Mi pare.
È evidente che chi si porta in giro una così sinfonica anatomia, inguainata come in un guanto attillato ed aderente, non lo fa, verosimilmente, per nasconderla: lo fa, piuttosto, per farsela ammirare, l’anatomia. Oppure no, magari non lo fa neanche per questo, ammettiamolo pure: ciò nondimeno non può certo immaginare (me lo si conceda) che i passanti, e segnatamente quelli maschili, non provino un moto di spontanea ammirazione unita a una sia pur fugace contemplazione. Mi pare.
Va bene, mi si obietterà, ma tu perché hai condiviso una siffatta immagine? E perché no?, rispondo io. È stata una leggerezza? Sarà, ma lo ripeto: non siamo mica a cospetto di un’immagine intima e privata, surrettiziamente trafugata. D’altro canto – posso dirlo? – si tratta pur sempre di un’immagine piacevolissima, quanto, direi, un bel viso, un paio di begli occhi o perfino una qualunque altra bellezza della natura. Oppure, se si preferisce, si tratta di una di quelle visioni per cui ai maschi scappa spesso di darsi discretamente di gomito o di scambiarsi un’occhiata eloquente di apprezzamento muto, come a dire: guarda che bellezza! E dunque? È questo il reato?...
Ora, qui c’è un’altra vulgata da sfatare. Le donne, si sa, assai più degli uomini curano il proprio aspetto fisico e il proprio abbigliamento. Lo fanno pure gli uomini, s’intende. Ci si sforza di vestirsi con cura ed attenzione anche per rispetto verso gli altri e poi perché non dispiace quasi a nessuno non dispiacere altrui. Ma le donne (concedetemelo) lo fanno assai di più, enfatizzando le proprie doti fisiche, oltretutto, con sofisticati espedienti (non a caso denominati trucchi) cosmetici (il che non è certo cosa disdicevole ma – me lo si concederà – è sicuramente un fatto). E sì, d’accordo, anche diversi uomini usano prodotti cosmetici, ma andiamo: non c’è gara. Per esempio: quanti uomini tingono i propri capelli bianchi (se ce li hanno)?... E quante donne invece non tingono i propri capelli bianchi?...
Insomma, devo continuare? O non è palmare che le donne sono use farsi belle assai di più e con più arte di quanto non facciano gli uomini? Sennonché, poi assai spesso esse vanno dicendo in giro che “lo fanno per se stesse”, per “stare bene con se stesse”. Posso avanzare qualche sommesso dubbio in proposito? Posso azzardare che, insomma, ci si fa belle anche, vivaddio, per piacere agli altri e che questi altri sono, preferibilmente, gli uomini? Il che, come ci suggerisce il buon senso, lungi dall’essere un reato, è cosa pregevolissima e oserei dire del tutto naturale (e naturalmente non mancherà chi sostiene che tale inclinazione delle donne è un portato della cultura e della storia, e non della natura e della biologia; ma ci crediamo veramente?).
Se poi una rappresentante del gentil sesso si agghinda addirittura in maniera non solo elegante e piacevole ma altresì conturbante (e vi risulta che ciò sia cosa tanto rara?) ecco che allora (non ci nascondiamo dietro un dito) lo fa per piacere agli uomini, altro che a se stessa. La qual cosa, di nuovo, non è affatto un reato, anzi, è una cosa bellissima. Ma non raccontiamoci poi, per piacere, che non lo si fa per mettersi in mostra, per farsi guardare, per farsi ammirare (minimo minimo).
Or dunque, se poi accade che io, o altri, ti guardino e in cuor loro (in cuor loro, beninteso – per carità!) ti apprezzino anche, ebbene perché mai costoro dovrebbero essere additati al pubblico ludìbrio come dei porci? Guardare, apprezzare, ammirare non equivale certo a palpare le natiche o, che so io, a fare degli apprezzamenti espliciti e volgari sulle grazie muliebri di turno e di passaggio. E tuttavia, da parte di talune donne (e non sono poche) s’immagina (in modo non poco contraddittorio, peraltro) che gli uomini, per essere “politicamente corretti”, dovrebbero magari girarsi dall’altra parte, quando passa un’avvenente ragazza con le sue bellezze abbondantemente in mostra, o magari dovrebbero chiudere gli occhi oppure coprirseli con le mani o forse addirittura non osare nemmeno permettere che faccia breccia nell’anticamera del proprio cervello un pensiero come “Accidenti, che bella ragazza!”…
Ma andiamo, un po’ di buon senso! Dietro molti risentimenti femminili contro i (presunti) atteggiamenti maschilisti degli uomini (che invece sono solo atteggiamenti maschili) ci sono veri e propri deliri puerili o iperbolici di pura e semplice ipocrisia. Alla faccia del politically correct. (Altro mito conformista – quest’ultimo – e travisato del nostro tempo. Ma questo è un altro discorso).
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TUTTI AL MARE, TUTTI AL MARE… - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
La Calabria è una specie d’Italia in miniatura, una penisola stretta e lunga, che si sviluppa da nord da sud, bagnata da due mari, il Tirreno e lo Ionio, tra i quali si sviluppa, senza quasi soluzione di continuità, la dorsale appenninica, da nord a sud. In men che non si dica, in Calabria si sale verso l’entroterra, si lascia la costa alle spalle, et voilà, ci s’inerpica su in montagna (e in altrettanto poco tempo si raggiunge il mare opposto).
Che cosa diventa la Calabria d’estate? Diventa meta di un intenso turismo per lo più balneare. I villeggianti si affollano sulla costa, si riversano sulle spiagge, si concentrano nei lidi (le stazioni balneari) fitti di ombrelloni “vista mare”, se ne stanno beati (o intorpiditi) seduti sulle sdraio e, come al cinema, stanno a guardare l’azzurro delle onde. Di tanto in tanto discendono alla battigia, si calano in ammollo, in prossimità della riva, nelle acque talassoterapeutiche, tutti assieme, vicini vicini, senza che quasi nessuno osi spingersi un po’ più in là, nel pelago periglioso, dove sarebbe garantito un benefico “distanziamento”.
In generale le mete predilette sono le cittadine e i borghi costieri, dove amano affollarsi le schiere numerose dei vacanzieri, e dove non di rado la popolazione arriva d’estate a decuplicare. Tra di loro sono in realtà molti quelli che, abbandonato (virtualmente) il caos delle città di provenienza, ma spinti da un impulso quasi tossico, amano ritrovarsi poi in ambienti urbani che riproducono, a volte in peggio, ciò da cui sono fuggiti, ritrovando lo stesso caos del traffico automobilistico cittadino, la stessa ressa nelle vie affollate fino all’inverosimile delle località balneari, dove la sera, tra un gelato e una pizza, si fa il cosiddetto “struscio”: si procede lento pede, gomito a gomito, immersi nella medesima calca delle affollate vie metropolitane dello shopping. E poi la chiamano fuga dalla città. La pace, il silenzio, la poca promiscuità e il distanziamento vero vengono viceversa vissuti da molti con l’apprensione di un horror vacui.
Eppure la Calabria è stretta e lunga, ha scarso sviluppo in longitudine: lasciandosi la costa alle spalle, nello spazio di pochi chilometri si ascende a verdeggianti montagne di faggeti e castagni, a solitarie selve, a borghi incantati di storia e panorami, nella pace e nel silenzio. Macché. Tutta roba che va pressoché deserta dal turista estivo. Sì, è una sindrome davvero sorprendente l’attrazione per la cagnara e l’affollamento. Che bello, che bello, dove c’è il clamore della folla! Una sindrome per me quasi inspiegabile, ma devo essere un caso clinico che aborre la ressa della massa.
E va da sé che quello che qui è stato detto per la Calabria, vale anche per altre regioni italiane. Per esempio si pensi alla Liguria: quanti sono coloro che trascorrono le ferie nell’incantevole entroterra ligure anziché nelle striminzite spiagge dove non c’è nemmeno un posto al sole?
Di più: va da sé che quel fin qui detto vale, mutatis mutandis, per tantissimi altri topos della vacanzitudine nostrana. Insomma, tutti al mare, tutti al mare, a mostrar le chiappe chiare…
Prof. Ivo Zunica
QUANDO LA FORMA È SOSTANZA - di Ivo ZunicaThere are no translations available.
La forma spesso è sostanza. Lo è per esempio nel settore della ristorazione. L’altra mattina un risveglio antelucano mi ha indotto ad uscire di casa, poco più in là dell’alba, in cerca di un bar. Ne ho trovato aperto solo uno. Mentre attendevo al bancone il caffè che avevo ordinato, la barista si è apprestata a porgere, attraverso il bancone medesimo, un vassoio per una prima colazione da portare a un tavolo. A questo punto il proprietario (intuibilmente) della rivendita mi ha urlato nelle orecchie uno sgarbato “permesso!”, accompagnando le parole con un gesto, sventagliandomi sotto il muso la mano, come a dire “spostati, fatti più in là”. (Noto per inciso che a quell’ora la fretta era peraltro ingiustificata data la scarsa affluenza di clienti). Non ho potuto trattenermi dal rimbrottarlo severamente per la scortesia: il barista si è taciuto, forse per la mortificazione o più probabilmente per la sua completa indifferenza alla mia reprimenda. Ma il punto non è questo. Il punto è che io in quel bar non metterò più piede.
Episodio di segno opposto. Qualche mese fa un altro barista, dopo essersi amabilmente intrattenuto con me (ma su mia sollecitazione, senza alcuna invadenza) sul più e sul meno e avermi servito la colazione, all’atto del pagamento, mancandomi una trentina di centesimi per saldare il conto, il gentile esercente mi ha risposto (udite udite) di non preoccuparmi, che glieli avrei dati la prossima volta e poi, figurarsi, si trattava di pochi centesimi. Quel barista è furbo, o intelligente o semplicemente dotato di buon senso: si è guadagnato un nuovo cliente, tant’è che da quel giorno io torno spesso (e volentieri) a servirmi da lui.
Morale della favola? La forma paga, la forma spesso è sostanza. In Italia, negli anni passati, molti nullafacenti incapaci e inoccupati (ma forse con qualche quattrino familiare alle spalle, o con qualche debito) si sono improvvisati negozianti e, spesso, ristoratori. Ma per aprire un pubblico esercizio serve una preparazione. Dirò di più, anzi, di meno: spesso non è nemmeno necessaria una scuola ad hoc, basta il semplice buon senso.
Così nella ristorazione non è, come si crede, veramente indispensabile una qualità superlativa della cucina. Basta di meno, basta anche solo un accettabile livello di decenza culinaria. Quello che invece conta (e direi è decisivo) è la forma. La forma più importante è la qualità del servizio. La quale ultima si misura non solo con la rapidità del servizio medesimo oppure col fatto che le portate dei commensali arrivino al tavolo in contemporanea, o con attese non estenuanti tra una portata e l’altra. Che pure sono cose importanti, beninteso. Ma la qualità del servizio si gioca soprattutto nella relazione, nell’atteggiamento che il pubblico esercente ha verso i suoi avventori: gentilezza (ma senza affettazione o invadenza), disponibilità ad ascoltare i desiderata del cliente (e ci vuole pazienza, perché a volte le richieste o le proteste degli avventori sono a dir poco peregrine).
Sta di fatto che in un posto nel quale io sono stato trattato bene tornerò volentieri (persino se la qualità della cucina non è eccelsa, è modesta, comune, corrente). Ma in un posto in cui sono stato maltrattato o trascurato non torno più. E’ quello che accade sempre, in moltissime circostanze della vita e non solo nel commercio. Ed ora mi si compatisca se con un arbitrario confronto pindarico passo dalla prosaica attività del commercio a quella elevata della poesia. Un componimento poetico non ha assolutamente valore per quelle quattro parole in croce con cui posso parafrasarlo. Non sono importanti soltanto (e talvolta neanche tanto) i suoi cosiddetti contenuti. Una poesia è eccelsa per come dice le cose, per la sua forma, appunto, che è apportatrice di significati ulteriori e sorprendenti e incantevoli.
Dalla ristorazione alla poesia (e in mezzo mettete tutto quello che volete) la forma è sostanza, e spesso è più sostanziale del mero “contenuto” che ti viene offerto.
Prof. Ivo Zunica